Pubblicato in: Il Resto del Carlino, anno XXXIII, fasc. 7, p. 2
Data: 7 gennaio 1917
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Quelli che non vanno alla guerra hanno inventato il «fronte interno». Siccome nel vocabolario italiano non c'è bandita che tenga e ogni pedone, ragguardevole o no, ha licenza di acchiappare le parole che gli vengon bene e di accoppiarle come gli gusta nessuno può fare opposizione a codesta formula che dà una spolveratina di guerrierismo ai cittadini che vestono in grigionero invece che in grigioverde.
A me, veramente, parrebbe che il «fronte interno», volendo significare le retrovie del paese, le quali arrivano giù giù fino all'ultimo promontorio sicano è, trovandosi al di dietro del fronte vero, il contrario d'un fronte.
Diciamolo groppa o schiena per non scender più giù e rispetteremo meglio la lingua e la guerra italiana.
Perchè io - veramente non parrebbe - sono un uomo semplice, tanto semplice e tondo che a volte mi vengono scoperte cose che tutti vorrebbero tener ricoperte — o di quelle cose che sembrano tanto sapute e risapute che nessuno se ne rammenta più. In questi giorni, per esempio, io pensavo all'incirca così: L'Italia fa la guerra; la guerra è la prima e la massima delle faccende nostre, per ora; la guerra la fanno i soldati; dunque bisognerebbe far tutto per i soldati, contentare quant'è possibile i soldati; sagrificarsi interamente per i soldati. Dico bene o potrei dir meglio?
Quelli della «schiena interna» mi par di sentirli: E non si fa così? E chi prepara la roba per i soldati? Chi fabbrica le bombe e le bombarde, i cannoni e le mitraglie per i soldati? Chi manda da mangiare ai soldati? Chi pensa a curare i soldati? Chi aiuta le famiglie dei soldati?
E di queste domande se ne potrebbero accordare altre venti tutte meritevoli d'un'approvativa e lodativa risposta. I signori in grigioverde e le signore in croce rossa hanno moltissime ragioni — non dirò che n'abbiano da vendere, perché anche loro ne comprano, ma insomma ne hanno tante da non meritarsi la fucilazione immediata o l'infamia perenne.
Però gran bella parola questo «però» che ristabilisce i disegni-libri nelle bilance insincere! — però si son chiesti mai i signori della «groppa interna» se tutta quello che fanno lo fanno davvero per l'amor dei soldati e dell'Italia? Si son domandati mai se quello che fanno basta davvero? E infine non si son mai accorti che di certe cose fatte da loro i soldati, i veri soldati, ne farebbero volentieri ma tanto volentieri a meno?
Tra queste ultime cose c'è secondo il mio forte e immodesto parere, la letteratura pittorica e sentimentale intorno alla guerra.
Ho discorso con molti soldati — sottufficiali, caporali e soldati — venuti di lassù. Obbedienti agli ordini di Cadorna e dell'amor patrio non mi hanno rivelato nessun segreto militare, nessun episodio scabroso, nessuna notizia compromettente e riservata. E io non ho chiesto nulla di ciò. Neanche che si son lamentati, come accade per statura o abitudine agli uomini specie se nati in Italia, dei comandanti, delle fatiche, della neve, del mangiare. I soldati italiani sono assai migliori di quel che da un popolo come questo sarebbe lecito aspettarsi. Non dirò che sian tutti pieni di fuoco militare e tanti fulmini di guerra: chi sarà l'uomo tanto sublime o tanto imbecille che faccia la guerra con gioia infinita? Gl'Italiani non sono sublimi ma neppure imbecilli.
Abbiamo dunque discorso d'altre cose: di psicologia, per esempio. Non credo che il comando supremo trovi male che si facciano dei discorsi di psicologia: in ogni modo, bene o male che sia, si son fatti e se non debbon farsi non li faremo più. Ma intanto da questi discorsi una cosa ho messo in sodo che giù mi aveva fatto immaginare la mia conoscenza, per imperfetta che sia, del cuore umano. Ed è che i soldati italiani, i soldati che fanno la guerra, i soldati che stanno in trincea e che a un bisogno saltano nella trincea nemica hanno terribilmente a noia la letteratura eroica, militare, guerresca che si fa alle loro barbe e alle loro spalle. E' una verità non ancora stampata ma ch'è bene dire, stampare e incidere: che i soldati autentici, i soldati combattenti, i soldati di prima e seconda linea di quella letteratura non si cibano e non si giovano, che anzi è venuta a loro in uggia e in odio; che sono, infine, gonfi, stucchi, stomacati, nauseati, seccati, di tutta la prosa colorita, musicata, lirica, piagnucolante, oratoria, squillante e rimbombante che gl'inviati, i corrispondenti, i letterati, gl'illetterati, i celebri e gli oscuri hanno mesciuto con mano diurna e notturna per descrivere, raccontare, cantare, amplificare, magnificare e celebrare le gesta e le imprese di loro soldati agenti e pazienti.
Non ci credete? Andate a domandarlo a loro, come ho fatto io, e vi confermeranno la giusta e savia opinione con parole assai meno rispettose di quelle adoperate da me. E hanno ragione. E se per cinque minuti vi degnerete di mettervi ne' loro scarponi chiodati vi persuaderete anche voi che hanno ragione.
Dicono, giuppersù, così: Noi siamo quassù al vento, all' acqua, al freddo, alla neve, lontani da casa e in pericolo di morte. Noi facciamo il nostro dovere; — chi parla d'entusiasmo universale e perpetuo è un parabolone al quale nessuno può credere o lo fa per falsa politica — ma insomma il nostro dovere lo facciamo. Siamo buoni ragazzi, quasi tutti, e ci s'adatta. Si potrebbe anche dire che si fa volentieri se non ci fossero quei benedetti pensieri delle famiglie, degli interessi, del lavoro, della pelle che preme a tutti, anche ai prosatori eroici.
In cambio di tutto questo noi vorremmo un po' più di rispetto. E il rispetto è silenzioso o tutt'al più sobrio di parole. Ma questo leggere in tutti i giornali e in tutti gli stili che noi stiamo qui per divertimento, che siamo tanti eroi di tipo spartano che altro non desiderano fuor di farsi squartare da una palla o bucare da una baionetta, che non vediamo il momento di far l'avanzate e di correre allo scoperto sotto il fuoco nemico ci dà un po' noia. A noi che ci siamo dentro la guerra sembra, come veramente è, una cosa assai più seria eppure assai più semplice: un affare piuttosto grave, un disagio fatto più di stenti che di pericolo, un soffrire più di pensiero che di corpo, una faccenda molto abituale e materiale e perciò pochissimo poetica ed epica. Il vederci raffigurati a quella maniera, come tanti mastini allegri che vanno a caccia d'uomini e non sognano che di menar le mani e di ricevere una palla in fronte (nella letteratura di guerra non é concepibile ricevere una palla in altre parti del corpo) invece di metterci addosso una gran voglia di ballare, come forse credono quei signori che adoprano a nostra maggior gloria le penne, ci mette invece una gran voglia o di ridere o di sbadigliare o di bestemmiare.
L'esercito italiano in questi mesi di guerra ha fatto del buon lavoro; si può dire, anzi, che sia, fra quelli alleati, l'unico veramente vittorioso. Ma il veder rappresentare ogni piccola azione come una battaglia campale; ogni avanzata di un mezzo reggimento come un cataclisma marziale; ogni duello quotidiano d'artiglieria come un terremoto o un finimondo; ogni gesto ardito di un ufficiale o di un plotone come un caso d'epopea omerica o virgiliana o tassesca; ogni stormir di fronda come un subisso; ogni assalto alla baionetta come un miracolo di titani; ogni manovra ben riuscita come un portento unico di genio tattico ci urta e c'indispone invece di rallegrarci.
No, illustri o bui prosatori rapsodi, noi, dicono i soldati proprio soldati, con tanto di fucile in mano, non abbiamo bisogno di codesti eccitanti, di codesti ingigantimenti. Noi siamo uomini e non dei; siamo di carne e non di ferro; siamo italiani del ventesimo secolo dopo Cristo e non baitari del ventesimo secolo avanti Cristo. Noi tacciamo la guerra e la facciamo meglio che sia possibile ma tutte codeste aggiunte, gale, frangie, esagerazioni, deformazioni, colorazioni non son fatte per il nostro gusto.
Noi siamo uomini di carne e cioè sentiamo la stanchezza come tutti gli uomini; siamo uomini civili e intelligenti epperciò deploriamo la dura necessità della guerra; siamo uomini onesti e lavoratori e per conseguenza vorremmo, se fosse possibile, essere a casa nostra piuttosto che quassù. Ci stiamo ma il nostro eroismo massimo consiste appunto nello starci e nel capire la necessità di starci fino alla vittoria. Il resto, con vostro beneplacito, è pessima o mediocre o risibile letteratura per uso interno.
E come se non bastasse codesta letteratura, non contenta d'esser cattiva e fastidiosa, non è sempre esatta. Ho trovato militari che avevan partecipato ad un'azione i quali, ritrovandola narrata da una di quelle tali penne fantasiose e pompose, non la riconosceva più. Eppure i nomi dei posti, i numeri delle quote eran quelli — ma tutto il resto era affogato, annebbiato, sfigurato in una tal saponata spumosa di concetti, aggettivi, accrescitivi, rettoricherie e strafalcionerie che il fatto non era più quello.
I soldati non si nutrono di letteratura riscaldata tutte le mattine e tutte le sere colle salse alla De Amicis, alla Barzini o alla D'Annunzio — perchè questo è il terzetto dei modelli dominanti — ma di pane, carne di manzo amore e verità.
Vogliategli bene a questi disgraziati fanti, che da diciannove mesi fanno una vita da bestie per mettere al dovere quelle più tremende e bestiali bestie che gli antropologi chiamano «tedeschi» . Ma voler bene non significa soltanto ciarlare, chiacchierare, elogiare, inneggiare e pindareggiare. Significa far del bene: perché, ad esempio, questi signori letterati non spendono una parte della loro eloquenza per convincere il popolo italiano a consumare sempre meno carne, zucchero e caffè in modo che si possa mantenere ai soldati — che se lo meritano — il rancio di prima? Non sarebbe giusto che facessero penitenze quelli che stando a casa guadagneno di più e patiscono meno piuttosto che gli eccellenti e pazienti soldati.
O non potrebbero, quei magniloquenti storici dell'epopea quotidiana, persuadere il Governo a ridurre i salari degli esonerati i quali, son sicuri della vita, stanno a casa propria, e guadagnano il doppio di prima? Non sarebbe giusto, per esempio, che una parte dei guadagni di questi fortunati esenti andasse ad aumentare i sussidi alle famiglie dei richiamati?
Ci sarebbero tanti altri modi per adoprare la prosa a pro' dei soldati senza intronar loro ogni di la testa con lodi e gesti e complimenti di cui hanno pieni — stavo per dir la parola resa illustre dal condottiero Bartolommeo.
Io, se fossi ne' panni di qualcuno dei ministri del grande ministero nazionale, farei tagliare dalla censura le malignità e le contumelie contro la guerra ma farei cancellare con inchiostro ancora più nero, le smaccate e forbite letterature guerresche che irritano i bravi soldati invece di animarli.
Si dirà che codesti brodoloni di rettorica sciaguattata servono per tonificare lo stomaco degli eroi della «schiena interna»?
E allora, se per tener su gli schienali e i busti dei borghesi, c'è bisogno di codeste ingessature frasaiole, come se i bozzetti di guerra fossero stecche di balena o fascette di sostegno, io comincio davvero a dubitare della virilità italiana.
Io, almeno, invece di far letteratura di guerra, m'ingegno a denunciare via via le successive imbecillità che fioriscono tra i miei concittadini e credo e so che di questo lavoro di ripulitura molti soldati mi sono riconoscenti. Ma i governanti italiani, che conoscono poco l'animo del popolo e perciò dei soldati, credono più convenienti i fuochi artificiali dei pirotecnici a prosa obbligata e ritengono velenose, senza distinzione, tutte le verità. Sbagliano: .
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